La musica, come disciplina appartenente al Quadrivium, ha guardato fino alla fine del medioevo in alto, verso le sfere celesti, studiandone i moti armonici, emanazioni o conseguenze dell’atto creativo attraverso il quale Dio avrebbe plasmato il cosmo. La musica si era distaccata dalla natura, cessando di essere in rapporto ecologico con l’uomo, nel momento in cui, nella Grecia pitagorica, alla nascita di una teoria armonica basata sulla distinzione tra consonanza e dissonanza, era seguita la definizione di una gerarchia di valori in cui le altezze dei suoni e la loro relazione rivestivano un’importanza di gran lunga maggiore rispetto alla timbrica e ad altri parametri più fisici, come la densità, la profondità, la sovrapposizione dei piani e delle masse. La distinzione attraverso cui anche il senso comune separa le caratteristiche ‘primitive’ e le caratteristiche ‘moderne’ della musica, deriva dalla svolta armonica impressa da Pitagora, o da chi per lui, al rapporto tra l’uomo e il mondo dei suoni.
Il mondo vivente, ancorato in basso sulla Terra, distante dall’ordine celeste incorruttibile delle sfere, non poteva essere oggetto di interesse ‘naturalista’ per un uomo che ambiva a un rapporto autentico con Dio. Agostino sosteneva che l’uomo, per avvicinarsi a Dio, dovesse guardare dentro di sé e all’ordine celeste e non in basso al mondo corruttibile della vita terrena. Questo pensiero, nel medioevo, rimase sospeso tra una concezione di derivazione stoica, che considerava semplicemente vano l’interesse dell’uomo verso le cose terrene, e una concezione, più fedele ad Agostino, che vedeva nell’attrazione dell’uomo verso le cose terrene un errore, un peccato, una tendenza da sopprimere. Secondo Cassirer fu la dottrina dell’eros di Marsilio Ficino a operare un primo tentativo di superamento di questo quadro (Cassirer, 1927, pag. 215). L’eros ficiniano rappresenta il punto di incontro tra l’amore attraverso il quale la natura corruttibile tende all’intelletto e a Dio e l’amore attraverso il quale Dio tende, riscattandoli, alla natura e all’uomo. In questo quadro è interessante osservare quale ruolo assume la musica in quest’epoca gettando uno sguardo all’iconografia che ritrae Orfeo con la kithara insieme agli animali.
Secondo la tradizione, tramandata da Apollonio di Rodi, Orfeo dava il tempo ai rematori sulla nave degli Argonauti, incantava i pesci con il suono della sua kithara ed era in grado di sovrastare il terribile canto delle sirene. Durante il Rinascimento sono molte le rappresentazioni di Orfeo che suona in un consesso di piante e animali ed è in grado di incantare questi ultimi riunendo intorno a sé, in pacifica convivenza, prede e predatori. Le allegorie orfiche rappresentano il potere dell’armonia di elevare il creato dalla sua condizione di imperfezione, per farlo tendere alla perfezione dell’universo delle sfere celesti. La musica di Orfeo, trafitto dal dolore della perdita di Euridice, è un simbolo di quell’eros che unisce l’aspirazione del creato alla perfezione dell’intelletto e a Dio con l’amore assoluto di Dio verso tutte le sue creature. In una xilografia databile tra il XV e il XVI secolo, probabilmente veneziana, Orfeo, dopo la perdita di Euridice, vive appartato incantando gli animali, gli alberi e le rocce. Intorno al capo, un’aureola lo individua come portatore del messaggio di Cristo, capace di armonizzare intorno a sé predatori (il leone, il lupo) e prede (la lepre, il cavallo, la giovenca). Orfeo impersona la capacità dell’uomo di tendere al perfezionamento del creato acquisendo, nella contemplazione di Dio e della perfezione celeste, la possibilità di creare artisticamente l’ordine cosmico dall’imperfezione terrena. In un’acquaforte del XVI secolo di Hans Collaert, intitolata “Orfeo tra le Muse incanta gli animali con la musica”, il cantore è collocato nel riquadro centrale della composizione, circondato da alcuni degli animali ricorrenti nelle rappresentazioni orfiche: il cervo, il leone, la giovenca, il lupo, l’orso e il pavone. Intorno a questo riquadro centrale vi sono, incorniciati, sette riquadri all’interno dei quali sono rappresentate le nove Muse che, secondo la concezione presente nel De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, muoverebbero le nove sfere concentriche dell’universo tolemaico generando i suoni dell’armonia celeste. Nell’incisione di Collaert, Orfeo volge infatti lo sguardo alla musa Polimnia, intenta a raccogliere le indicazioni del citaredo per accordare la sua viola da gamba. Quell’accordatura simboleggia il tentativo di coniugare la natura umana e il sentimento, la sensazione di armonia e di bellezza, con l’ordine universale.