Abbiamo già affrontato in questo articolo il tema della simulazione al computer dei processi evolutivi in grado di far nascere culture musicali. Il tema mi interessa, così, sfogliando le pagine di PNAS per una ricerca, mi sono imbattuto in uno studio dell’Imperial College dal titolo Evolution of Music by Public Choice. Si tratta di un lavoro che intende dimostrare come le dinamiche culturali possano essere spiegate in termini di competizione evolutiva. Nella fattispecie gli autori delineano un meccanismo governato da forze evolutive in grado di spiegare la persistenza di certi pezzi musicali nella storia, persistenza che troverebbe ragione nel ruolo creativo dei consumatori, di chi sceglie cosa ascoltare. Di per sé la faccenda appare autoevidente, nel senso che è chiaro che se un pezzo non se lo fila nessuno, quel pezzo è destinato a essere dimenticato da tutti o quantomeno dai più. Mi sono apparsi d’altra parte subito interessanti due aspetti della ricerca: a) l’attribuzione alle forze evolutive di un ruolo creativo nella generazione di un’opera musicale e b) il modo in cui evoluzione socio-culturale ed evoluzione biologica possano essere avvicinate sulla base di meccanismi comuni.
Gli autori infatti si fanno tre domande:
Is it possible to make music without a composer?
If so, which kind of music is made?
What limits the evolution of music?
L’esperimento cerca di separare i tre aspetti ‘sociali’ del fenomeno musicale: la presenza di un compositore, la presenza di ‘consumatori’ e la presenza di chi produce, promuove o favorisce la diffusione musicale. Hanno, allo scopo, creato Darwin Tunes, un software che, nelle parole degli autori, è così organizzato:
An algorithm maintains a population of tree-like digital genomes, each of which encodes a computer program. When a program is executed, a short, seamlessly looping polyphonic sound sequence, a loop, is produced deterministically. Each genome/program specifies note placement, instrumentation, and performance parameters; however, tempo, meter, and tuning system are fixed for all loops. No human-derived sounds, rhythms, or melodies are provided as input to the algorithm. During the experiments, loops periodically replicate to produce new loops. The daughter loops are not, however, identical to their parents for two reasons. First, in a process analogous to recombination, the genome of each daughter loop is formed from the random combination of its two parents’ genomes. Second, in a process analogous to mutation, each daughter also contains new, random genetic material. These two processes mimic the fusion of existing, and invention of novel musical motifs, rhythms, and harmonies that can be heard in musical evolution. The only selective pressure in DarwinTunes comes from a population of consumers who listen to samples of the loops via a Web interface and rate them for their appeal. These ratings are then the basis of a fitness function that determines which loops in a given generation will be allowed to mate and reproduce. We therefore expect that the frequency of musical traits will evolve under the influence of this selective process rather as trait frequencies in organisms do under the influence of natural selection.
Darwin Tunes elimina perciò dal sistema il compositore e dimostra che le scelte effettuate dal pubblico sono in grado di determinare un’evoluzione della musica verso strutture che assomigliano a quelle cui è abituata la popolazione che effettua le scelte all’interno della ricerca, popolazione selezionata tra i fruitori di musica pop occidentale. Ma esiste un limite a questa evoluzione: dopo circa 500-600 generazioni il sistema raggiunge un equilibro e non vi sono più significativi cambiamenti delle ‘opere’ prodotte dal software. O meglio, per usare il linguaggio degli autori, la fitness dei pezzi dalla generazione 600 in poi è più o meno equivalente. In altre parole: lo stesso campione di popolazione che con le proprie scelte ha determinato l’evoluzione del sistema giudica esteticamente equivalenti le composizioni dalla generazione 600 in poi: un vero e proprio cul-de-sac.
Le risposte che dà la ricerca, secondo gli autori, sono le seguenti: è possibile avere l’evoluzione di una cultura musicale a prescindere dalla presenza di creatività individuali; il tipo di musica generato dipende dalla cultura del campione di popolazione impiegato nella ricerca; esiste un limite all’incremento della fitness dei pezzi espressi nelle varie generazioni, tale che i giudizi estetici espressi sulle singole ‘opere’ si equivalgono dalla seicentesima generazione in poi.
A me la ricerca in questione solletica, però, ben altri spunti di riflessione.
1) La ‘public choice’ creativa dell’esperimento mi suggerisce piuttosto una sorta di assenza di creatività nella composizione musicale. Mi spiego meglio: così come in Darwin Tunes, là fuori molti compositori (specie nella musica di consumo, ma non solo!) si limitano ad attuare protocolli in grado di generare brani per raggiungere la fitness richiesta dalla popolazione di riferimento e dato che la creatività emergente dalla ‘public choice’ ha un limite, la cultura musicale emergente in un sistema di questo tipo è destinata a ritrovarsi in un cul-de-sac. Mi sembra che lo studio dell’Imperial College sia un ottimo modello di come stiano andando le cose nel pop di consumo ma anche all’interno di certe nicchie.
2) Ascoltando brani esemplificativi delle varie generazioni di Darwin Tunes, la mia preferenza è senza dubbio inversamente proporzionale allo scorrere delle generazioni: il brano che mi piace di più corrisponde alla generazione zero e dalla cinquecentesima generazione in poi i pezzi mi sembrano letteralmente inascoltabili.
3) L’evoluzione culturale, così come l’evoluzione biologica, non obbedisce a criteri estetici. Ci deve essere perciò qualcosa che abbiamo il dovere di indagare e che è in grado di produrre una sorta di interferenza distruttiva nel processo di sommatoria dei giudizi estetici verso un evento. Con la conseguenza che le espressioni culturali di massa (dalla musica, allo spettacolo, al pensiero in genere) in mancanza di valide e autorevoli mediazioni finisce per esibire un’imbarazzante aridità creativa se non si vuole parlare di bruttezza.
http://auricultura.tumblr.com
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grazzie por tua pesquisa
carissimo,
penso che ci siano un paio di ‘errori’ di fondo nella ricerca dell’imperial college, ‘errori’ che consistono nel pensare che 1) i giudizi estetici ‘di massa’ siano qualitativamente diversi dagli altri (credo invece che il giudizio estetico di massa sia, né più né meno di quello della nicchia o di qualsiasi altro, un giudizio s p e c i f i c o, con sue caratteristiche proprie, così come la ‘hit parade’, che lo riflette e rappresenta in qualche modo, è un m o n d o con caratteristiche proprie – e sarebbe interessante studiarle); 2) che siano le masse (o la ‘gente’) a decidere quali opere debbano restare e quali no. i critici, gli ‘esperti’ e gli ‘appassionati’ (categoria interessante, quest’ultima, che – per quanto ovviamente differenziata di caso in caso – costituisce sempre una netta minoranza: p. es. umberto eco è letto da moltissime persone, ma sono pochi gli ‘appassionati’ di umberto eco, e questo vale un po’ per tutti i fenomeni di massa (‘stayin’ alive’ la conoscono tutti, ma chi conosce BENE i bee gees? forse altrettanti di quanti conoscono BENE feldman, o i kraftwerk…)); critici, esperti e appassionati, dicevo, sono molto più determinanti nel decidere chi resta o chi no. l’esperimento mi sembra sia più orientato verso la comprensione delle dinamiche di omologazione del gusto. comunque: è possibile che la musica esista senza il compositore? certo che è possibile, anche se, concordo pienamente con te, diventa presto una musica mortalmente noiosa.