Il pensiero analitico si basa, nella scienza, sul cercare gli elementi scomponendo qualcosa nelle sue parti, finché non si arriva a trovare ciò che non è causa di qualcosa di più piccolo che ne costituisce un elemento. Lo scienziato che vuole spiegare, per esempio, il colore cercando di delinearne le vere cause e la vera struttura elementare, considera che l’uomo, di fronte alle radiazioni elettromagnetiche comprese nelle lunghezze d’onda tra i 700 nanometri e i 420 nanometri percepisce una sensazione che definisce luce. La luce è interpretata dai nostri organi di senso secondo qualità definite colore. È possibile perciò operare una riduzione eliminativistica del colore alla sua fisicità, rappresentata dall’equazione tra velocità della radiazione elettromagnetica e rapporto lunghezza d’onda/frequenza. La molteplicità dei colori, evidenziata dai loro nomi, è la sintesi qualitativa, operata dalla coscienza, di un lavoro di analisi quantitativa operato dai nostri fotorecettori e dalle mappe neurali preposte alla visione. Nel contesto della visione l’elemento è rappresentato dal profilo di attivazione dei fotorecettori e, di conseguenza, dalla decodifica centrale del profilo stesso.
Se fossimo un oscilloscopio saremmo capaci di comunicare informazioni sulle radiazioni luminose nei termini di una forma d’onda o della funzione che in astratto la rappresenta. La precisione quantitativa dell’uomo consiste nell’attribuire a ciascuna forma d’onda luminosa la qualità del colore che, se si vuole, è un tipo diverso di precisione, non quantitativa, rispetto a quella dell’oscilloscopio. L’ottica indaga il rapporto che esiste tra la percezione propria dell’oscilloscopio e la percezione propria dell’uomo. Riduzioni eliminativistiche reciproche rappresentano in ultima analisi la boa dalla quale si affronta il problema della visione.
Ogni ricerca degli elementi è una ricerca di senso e implica una ricerca di qualcosa di più autentico di ciò che ci è già dato; deve essere la risposta alla domanda: «ho spiegato perché le cose che vedo esistono in quel modo e perché non può esserci un loro esistere più autentico di quello che ho spiegato»? Nel caso specifico: «ho spiegato perché i colori esistono nel modo che ci è familiare e perché quello è il loro modo più vero e autentico di esistere»? Se si volesse premettere il principio dell’universo soggettivo e ideale, non avrebbe senso cercare il senso più autentico del colore nel darsi apparente delle cose, poiché il pensiero scientifico, con il suo metodo, offre spiegazioni strumentali e non essenziali della realtà delle cose ed è solo un percorso di conoscenza giustificato dalla struttura sociale della cultura che lo esprime: non esiste un metodo esclusivo e oggettivo per arrivare a una conoscenza universale e autentica. Viceversa chi premette il principio dell’universo materiale e oggettivamente conoscibile, sostiene che è possibile indagare una realtà oggettiva, che esiste indipendentemente dal soggetto, attraverso l’uso di criteri universali di indagine, ricerca e chiarificazione, che consistono in un metodo di dimostrazione induttiva basato sulla falsificazione di congetture. In questi termini è una conoscenza autentica la conoscenza scientifica, data da tutto ciò che è dimostrato empiricamente e che in linea teorica rimane confutabile, ma valido fino a che non viene, appunto, confutato. Perciò: gli elementi per gli uni non sono gli elementi per gli altri. Entrambe le premesse accettano la coerenza dei due rispettivi mondi possibili ma impongono lo spostamento di un confine nell’uno e nell’altro. Ciò che è considerato autentico in seguito a una premessa non è autentico premettendo l’altra. In breve: in una prospettiva la scienza ha una sua coerenza ma non reca il senso autentico delle cose che sta tutto nell’esperienza soggettiva dell’essere, mentre per l’altra prospettiva le esperienze soggettive, con la loro coerenza relativa, rappresentano un ostacolo da rimuovere a un’effettiva comprensione della realtà esterna.
L’errore delle due posizioni, che pretendono di individuare un tipo di conoscenza universale e autentico, sta proprio nel pretendere la superiorità di un’esperienza nei confronti dell’altra e la possibilità di ridurre l’una nell’altra. Ma se la scienza, che esplora per mezzo delle percezioni e dei limiti che esse impongono, funziona ma non prova è vero anche che il relativismo ipersoggetivista è esso pure una forma di riduzionismo, che assomiglia maledettamente a quello scientifico.