Un ottimo libro pubblicato ormai qualche anno fa e che consiglio senz’altro di leggere a tutti gli umanisti, almeno come esercizio di disciplina professionale, è il saggio di Alan Sokal e Jean Bricmont Imposture intellettuali.
Il libro trova origine nel cosiddetto affare Sokal. Sokal, professore di fisica alla New York University decise di sottoporre all’attenzione della rivista Social Text un suo articolo dal titolo “Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity” . L’articolo in realtà era stato redatto con l’intenzione di mischiare il linguaggio della scienza e quello della critica sociale in un magma senza senso allo scopo di verificare il rigore della rivista. Nel testo si trovano passi di questo tipo:
La teoria delle catastrofi, con le sue accentuazioni dialettiche su regolarità/discontinuità e metamorfosi/dispiegamento, giocherà senza dubbio un ruolo da protagonista nella matematica del futuro; ma resta da fare ancora molto lavoro teorico prima che questo approccio possa diventare uno strumento concreto di prassi politica progressista. Infine, la teoria del caos – che è in grado di farci penetrare in profondità nel fenomeno ubiquitario e pur tuttavia misterioso della non linearità – resterà di importanza centrale per tutta la matematica. Eppure, queste immagini della matematica futura non possono essere che un baluginìo confuso: giacché, in parallelo a questi tre giovani rami nell’albero della scienza, sorgeranno nuovi tronchi e nuovi rami – intere costruzioni teoriche – che noi, con i nostri paraocchi ideologici attuali, non possiamo neanche concepire.
Contemporaneamente all’uscita su Social Text, Sokal rivelò che l’articolo non era altro che una burla, un pasticcio nel quale venivano messi insieme senza alcun nesso concetti e parole chiave del dibattito scientifico con concetti e parole chiave della critica politica, sociale e letteraria di ambito francese.
Il libro di Sokal e Bricmont riprende il dibattito scaturito dall’affare Sokal e si propone un’analisi approfondita del modo in cui autorevoli sociologi e filosofi usano parole e concetti della matematica e della scienza in modo superficiale e talvolta privo di senso. Lontana dall’essere un rigurgito scientista di esibizione di superiorità del pensiero scientifico rispetto a tutto il resto, l’operazione di Sokal e Bricmont è un tentativo lucido e accurato di individuare le debolezze di un accademismo umanista di maniera. Personalità autorevoli come Lacan, Kristeva, Irigaray, Latour, Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio, se da una parte hanno cercato di fare il loro lavoro di umanisti alla ricerca di connessioni, omologie e analogie, anche tra cose lontane, aprendo e facendo parlare le parole e le cose, dall’altra non sono mai riusciti a comprendere la complementarità di base tra i due diversi modi di pensare che stanno alla base dell’esperienza scientifica e dell’esperienza astratta.
Ci mancherebbe, non ho letto il libro di Sokal e Bricmont, e dunque commenterò solo a margine, nell’attesa. Innanzitutto, mi pare chiaro che l’affare Sokal colpisce al cuore, prima che i grandi filosofi e intellettuali citati, chiunque ami una filosofia quale specchio in cui confermarsi, in cui consolarsi, magari esorcizzando proprio quelle paure che dovrebbero essere affrontate perché ci si possa spingere oltre le spalle dei giganti su cui s’è deciso di salire. Si sa, nulla usura come le formule trite più volte ripetute. Esse diroccano il pensiero cui si riferiscono, ne tracciano l’estenuazione, lo svuotamento. E poi tutti i grandi intellettuali qualche buccia, ogni tanto, la prendono anche loro: eccessiva visionarietà, presunzione, superficialità…
Però… però… intanto, il tracollo delle fondamenta stesse del concetto di intellettuale ha impedito ogni ulteriore sconfinamento tra campi diversi del sapere, magari maldestro, ma forse anche foriero di novità. E non è un caso che proprio il libro di Sokal coinvolse meno nella polemica Foucault, che di quel tramonto si fece cantore (e ognuno nel proprio campo di semina!). Poi la progressiva differenziazione dei linguaggi umanistici e scientifici e l’assoluto non cale in cui è tenuta la storia della scienza.
Infine quello che io chiamo il tranello del post-moderno: cioè la giusta critica alla sussiegosità di certo umanesimo e alla sua vis egemonica. Tranne poi a ribaltare la guerra rivoluzionaria e libertaria dei laboratori nella chiusura conservatrice dell’ossessione di onnipotenza della scienza. Compendiata, questa, dalla sciagurata frase per cui si vorrebbe l’homo tecnologicus intanto ricercatore e inventore (homo faber eminentissimus) ma piuttosto sollevato delle applicazioni politiche (e dunque eminentemente umanistiche) e contestuali del loro operare.
E invece cosa scopriamo? che anche la scienza è ancilla, è serva, ma della finanza e degli appetiti dello stato. L’altro ieri mi chiedevo (leggendo il giornale) quanto sarà costata alle casse di chissà quale fondazione stabilire che quattro tazzine di caffè allungano la vita invece che non berne, ad esempio. Oppure quanta adrenalina avrà prodotto Zichichi sgomitando in Rai pur di dare per primo la notizia che Einstein era ormai chincaglieria di fronte a quel San Neutrino che, ancora una volta, invece, s’era fatto beffe dei migliori fisici! E dire che sulla bomba atomica (e pure sulle bombe blu, sull’antrace, sul tnt ecc ecc ecc) ancora piangiamo storiche lacrime, così come sulla protervia di una scienza che pretende di “far vivere” ancora ogni Eluana Englaro, sbeffeggiando un Di Bella che, certo, non ha capito nulla di cura ai tumori (per fortuna non s’è dichiarato filosofo taumaturgo), ma invece ha posto un problema essenziale quanto sconosciuto all’uomo di scienza che è la maggiore responsabilità dell’empatia verso il malato.
Dunque la ricerca scientifica è altrettanto pura? E da quando non dice più una parola sull’uomo, sul contesto umano, sul consesso umano, da quando gli ultimi grandi scienziati, Einstein incluso, per l’ultima volta ne parlarono? E quello che hanno detto Deleuze e Virilio, poniamo, è tutto da buttare solo perché non hanno studiato, poniamo, le equazioni? E i due istituti che si sono per mesi e anni contesi (per i fondi per la ricerca) la scoperta e l’isolamento del virus hiv o tutti gli istituti che non producono penicillina per il Terzo Mondo perché fuori brevetto, sono da comprendere o scivolano ormai senza fine su un’unica grandissima buccia di banana?
Ma tanto ormai, mi pare, il dialogo è tra sordi. Anzi, a causa delle diffidenze, delle lotte egemoniche, mi pare il dialogo non ci sia proprio più. Tutti più contenti?
Un commento molto sentito, Antonio. E molto molto interessante.
Sokal e Bricmont non parlano in senso generale dei rapporti tra la scienza e la filosofia, né fanno della filosofia della scienza o una critica spicciola del relativismo postmodernista. Si scagliano piuttosto contro l’idea che si possa trattare il linguaggio scientifico allo stesso modo del linguaggio filosofico o del linguaggio artistico. In “Che cos’è la filosofia”, ad esempio, Deleuze e Guattari avvicinano scienza, arte e filosofia trovando sentieri comuni tra queste discipline in termini e idee che sono usate (per dirla con Wittgenstein) in modo radicalmente diverso nella scienza da una parte e nell’arte e nella filosofia nell’altra. In fondo il problema sta qui: la filosofia può permettersi un certo tipo di relativismo, la deriva omologica, lo scivolamento nelle brume dell’indistinzione e del caos. La scienza invece no. E la filosofia non può pensare allo scienziato come a qualcuno che, quando fa scienza, si comporta come il filosofo quando fa filosofia o l’artista quando fa arte. E’ del tutto ovvio che per me è augurabile trovare uno scienziato che voglia levarsi il cappello dello scienziato per parlare di società o di arte, ma quando lo farà non potrà usare le parole allo stesso modo in cui le usa quando fa scienza.
Di contro se un filosofo parla di entropia o di meccanica quantistica deve sapere esattamente di quello di cui parla e parlarne, infine, indossando il cappello dello scienziato.
Invece trovo proprio qui il punto. La filosofia non può permettersi nessun relativismo o deriva nel senso di una qual certa licenza poetica, non è figlia di un dio minore a cui sì certo, che vuoi, bisogna lasciare, poverina, una certa licenza di approssimazione, tanto è magismo del linguaggio e della ricerca. E questo atteggiamento sussiegoso io lo ritrovo ancora da parte di fisici, chimici e matematici anche rispetto a scienze liminari quali l’etologia, ad esempio. Quando invece i fisici parlano, poniamo, di superstringhe, si dice, invece, che stanno genialmente ipotizzando secondo rigoroso ragionamento scientifico. La verità sta invece nel fatto che è il metodo scientifico (ma che proprio tanti filosofi hanno contribuito a impostare nel tempo) a dover accomunare tutti. E la visionarietà a dare linfa vitale a tutti. Il caos, poi, io credo che lo affrontino sia i fisici che i filosofi.
Quanto ai linguaggi eccepisco, anche qui. Perché in realtà tu non vorresti, ma continui a teorizzare e auspichi la separatezza dei linguaggi. Purché la scienza se ne stia in posizione dominante (il postmoderno è per chi perde, insomma). Il che, invece, è solo una distorsione ottica dovuta alla fase storica (e infatti è vero che l’Inquisizione molti fuochi accese sotto i piedi degli uomini di scienza, ma è pur vero che l’illuminismo consumò altrettanti genocidi!). Poi, ovviamente, il filosofo parlerà di relativismo con il linguaggio della filosofia e lo storico con quello della storia affrontandone le implicazioni tipiche della loro dottrina e doverosamente tentando di non sconfinare in campi a loro troppo sconosciuti (purtroppo di tromboni ce ne sono tanti!). Ma vivaddio, non vorrai contestarmi che Einstein quando parla di relatività, oltre a fare scienza, non coglie anche lo zeitgeist di un evo. E’ per questo che Einstein è un mito. Mito. Un concetto scarsamente scientifico.
Però la verità è: si accusa Deleuze o Virilio di osare la sintesi. Che, mi sembra, non sia approssimativa in quanto sintesi ma è approssimativa perché sempre si è rimossa la possibilità di linguaggi liminari di sintesi. Del resto l’egemonia è l’egemonia e i filosofi solo l’ombra della scienza. Il che può essere vero. Ma allora dobbiamo pensare che la scienza abbia paura della propria ombra?
Carissimo Antonio, stiamo discutendo su due livelli paralleli.
E’ corretto dire che io sono perplesso a proposito di una sintesi tra le due esperienze di cui si parla – quella scientifica e quella estetica o più in generale astratta – ma lo sono guardando dallo stesso punto di vista che usano gli epistemologi. Non mi interessa in sé il rapporto tra la scienza e la filosofia (o l’arte), mi interessa verificare il modo in cui destrutturare un’idea scientifica – nata per analizzare, porre in relazione categorie ed esplorare percezioni – finisca per rivelare il tentativo di subordinare l’esperienza scientifica all’esperienza astratta. E’ chiaro che avviene anche il contrario, come ho più volte ripetuto. Il punto sta proprio lì. Non esiste un’esperienza più vera e più autentica perché le strade che percorrono gli scienziati vanno in una direzione opposta a quelle che percorrono gli artisti o i filosofi. Ma attenzione! Quando parlo di scienziati intendo lo scienziato quando fa lo scienziato. Stesso discorso per filosofi e artisti. Lo sono dentro la loro esperienza. Leggendo il mio libro ti rendi conto che ho una particolare predilezione per gli scienziati che coniugano l’esperienza scientifica con l’esperienza estetica, ma faccio notare che – da Thom a Bateson, a Wiener, a Von Foerster – quando entrano nell’una escono dall’altra pur alimentando uno stretto confronto. Il problema di Deleuze-Guattari e Virilio è proprio quello di pensare erroneamente che non esista una complementarità di esperienze e che il dialogo liminare tra scienza e filosofia possa avere una sintesi intermedia che a mio avviso non può esistere. E’ per questo che, per quanto possa sembrarti strano, condivido in pieno le cose che dici nella risposta. Permettimi solo una precisazione: non invoco la separazione dei linguaggi, dico solo che le PAROLE si possono USARE in modi diversi e certi modi non funzionano per tutte le esperienze.
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